È notte. Io adoro la notte. Mi aiuta a stare sola e a riflettere.
Mi aiuta a far pace con me stessa, con quei mostri che mi porto dentro sin da
bambina.
Me ne sto lì stesa sul letto a fissare il soffitto bianco.
Dalla finestra la fioca luce della luna e delle stelle.
È proprio strana la vita.
Si nasce e quando meno te lo aspetti ti ritrovi dinanzi allo specchio che riflette il
tuo volto già da donna.
E nel tuo bagaglio sono già rinchiuse le sconfitte e le vittorie, le delusioni dei
primi amori e quei sogni che sin da bambina accompagnavano le tue notti.
Sogni che lentamente si erano frantumati come ghiaccio al sole.
Avevo diciotto anni quando decisi di andare via da casa. Quelle mura mi
soffocavano, mi portavano via il respiro. Avevo bisogno di sentirmi libera, di
sentirmi viva.
Mi rimboccai le maniche e cercai di fare affidamento solamente sulle mie forze.
Ma il tornado era lì, pronto ad investirmi, a travolgermi e a stravolgere per
sempre la mia vita.
Questo tornado aveva un nome, Guido.
Era bello, dannatamente bello e anche molto più grande di me. Alto, palestrato,
occhi chiari. Era il “principe azzurro” delle favole.
Ed io ero l’ingenua principessa che aveva bisogno di essere tratta in salvo.
L’amore in fondo non ha età.
Lo incontrai in una piovosa sera autunnale.
Fu un colpo di fulmine.
Mi ritrovai nel suo letto, stretta al suo petto e quel calore mi dava conforto e
serenità.
Finalmente avevo trovato l’amore, quello vero.
Il sogno di ogni donna sin da bambina è quello di indossare l’abito bianco,
attraversare l’atrio della chiesa e promettersi amore eterno dinanzi al Signore
Gesù.
Ricordo ancora quando Guido mi chiese di sposarlo.
Quella sera mi regalò un anello d’oro luccicante.
E così qualche mese dopo ci giurammo amore eterno.
Ero felice.
Ma qualcosa cambiò, Guido cambiò.
Cambiò il suo sguardo, cambiò il suo comportamento, cambiò il suo amore per
me.
In un sol attimo mi ritrovai bagnata dalle mie lacrime, affogata da quel fiume in
piena che stravolse per sempre tutto ciò che avevo costruito intorno a me.
Mi ritrovai sola, stesa al tappeto come un pugile.
Guido è sempre stato un marito modello, ha sempre appoggiato le mie idee… o
almeno così credevo io nella mia ingenuità.
Avevo vinto il concorso per insegnante.
Quella sera avevo preparato la pizza, il suo piatto preferito.
“Amore, finalmente ho vinto il concorso per insegnare. Da domani comincerò a
lavorare in una scuola elementare, non sei contento?”
Azzardò un timido sorriso che mi lasciò l’amaro in bocca.
Poi, abbassò lo sguardo e cominciò a mangiare senza dire più nulla.
“Non dici nulla?”
“Sono contento” disse seccamente nascondendo una sorta di gelosia.
Cominciai a lavorare e a stringere amicizia con le mie colleghe.
Finalmente avevo un po’ di tempo e spazio per me.
Guido aveva, intanto, perso il lavoro o almeno era ciò che mi fece credere.
Mi illudeva di essere in continua ricerca di un posto di lavoro.
Aveva cominciato a pedinarmi, a seguire i miei spostamenti, a controllare il mio
cellulare e il mio profilo facebook.
Temeva di perdermi.
E così il sentimento si era trasformato in materialità.
Non erano più le passeggiate al chiaror di luna; gli sguardi infuocati d’amore;
non vi era più filosofia nelle nostre parole.
Eravamo diventati ineluttabilmente due semplici corpi uniti ora dal solo avido
desiderio di possesso.
Io, però, non sono un oggetto!
L’oggetto di per sé è inanimato, non prova alcun sentimento.
Io ho sempre pensato che la fisicità di una persona è come una barca. Essa di
per sé non trasmette sentimenti al semplice vederla.
Ma è solamente una volta uscita dal porto che essa mostrerà il suo valore.
Non mi sento come una barca ormeggiata nel porto, semplicemente ammirata,
osservata, criticata per le mie vele, il mio scafo o per il mio timone.
Piuttosto mi sento come una barca in procinto di lasciare il porto, di essere
libera e poter mostrare ai miei passeggeri le mie qualità solcando il mare
dell’infinito amore e lasciando che la brezza accarezzi le mie vele.
Chiedevo solamente di essere libera.
Una sera rientrai a casa e lo trovai sul divano con in mano una bottiglia di
wodka. Non era solito bere quella roba.
Capì immediatamente che qualcosa non andava.
Quando mi vide si alzò e mi venne incontro.
Ricordo ancora i suoi occhi rossi, infuocati. Era furioso.
Fece partire un ceffone che mi colpì in pieno viso.
Ho ancora il rumore nelle orecchie.
“Brutta stronza” disse.
Lo guardai negli occhi. Per la prima volta nella mia vita avevo paura di
quell’uomo.
Mi dileguai lentamente e lo lasciai lì.
Mi rifugiai in bagno e cominciai a piangere.
Vidi i segni delle dita sul mio viso.
Il giorno dopo mi portò la colazione al letto e mi chiese perdono per quello
schiaffo.
Mi disse che aveva avuto una brutta giornata ma che ora stava meglio.
Promise anche che non mi avrebbe più pedinata.
Lo baciai e lo perdonai.
Al tramontar del sole ritornai a casa e lui era lì, esattamente come la sera
prima.
Mi guardò.
Poi si alzò e mi si avvicinò.
Ricordo ancora l’odore dell’alcool nella sua bocca.
Mi afferrò le braccia e le strinse con tutta la forza che aveva in corpo.
Poi mi spinse.
Mi ritrovai sul freddo pavimento.
Lui era lì, in piedi dinanzi a me con quel bel sorrisino sulle labbra.
L’amore non è il possesso. Io sono una persona non una cosa. Una persona
non la si può possedere. È contro natura, è contro ogni legge.
Ero ferita nell’orgoglio, ferita nell’animo.
E intanto il sole sorgeva, attraversava le persiane della finestra e illuminava il
mio volto, sfigurato dai lividi e dal pianto.
“Buongiorno amore, mi dispiace per quello che è accaduto ieri, non succederà
più”.
Lo baciai. Lo amavo. Lo perdonai.
La maschera per nascondere i lividi e quella banale “bugia” che raccontavo ai
miei colleghi.
“Sono caduta dalle scale”; “Questa notte mi sono svegliata, era buio, non ho
visto il tavolino e ci sono sbattuta contro”.
Che stupida!
E la sera lui era sempre lì in compagnia della sua inseparabile bottiglia di
wodka.
Si alzò. Mi venne incontro.
Mi sferrò un pugno ed io mi ritrovai a terra.
Cominciò allora a percuotermi con la cintura di cuoio.
Cominciai a chiedere perdono. Perdono a Dio, perdono a lui, perdono a me
stessa per aver creduto alle sue bugie.
È notte. Qui nella casa dove ora vivo, sola.
Senza di lui ora posso alzare lo sguardo al cielo e vedere la luna, le stelle.
Bagno con le lacrime le pagine del diario della mia vita.
Mi chiamo Valeria. E io ricomincio da qui.
A cura di Demetrio Sposato.
A cura di Demetrio Sposato.
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